Il 25 aprile (parte I°)

Roma, 23 apr – Nell’ultimo numero de Il Primato Nazionale, in un apposito inserto dedicato alla celebrazione del 25 aprile, anniversario della “Liberazione”, ci si è giustamente interrogati su alcuni aspetti problematici della Resistenza che, ancora oggi, a tanti anni di distanza da quegli eventi, sembrano sollevare dubbi e timorose reticenze. Qui di seguito, pertanto, senza inutili ripetizioni, si tenterà di fare alcune riflessioni su quell’insieme di eventi politici e militari e su alcuni aspetti di quel complesso momento storico che, per opportunità politica o quieto vivere, vengono solitamente sottaciuti dalla storiografia ufficiale e dalla manualistica scolastica. Una conoscenza consapevole del passato mira a riportare i fatti stessi alla “giusta” dimensione storica ed obbliga ad un’analisi completa, senza timore di cadere nel pantano della strumentalizzazione politica e, soprattutto, senza alcuna volontà di sminuire il sacrificio o l’eroismo di chi fu protagonista di quella drammatica stagione. Resistenza sì, ma di chi? Il concetto stesso di “Resistenza”, dal punto di vista squisitamente militare, fa riferimento ad un insieme coordinato di azioni belliche – attuato da eserciti regolari o da bande di guerriglieri – per impedire o contenere l’invasione o l’occupazione del territorio nazionale da parte di formazioni militari nemiche. Ebbene, se inteso così, il concetto di “Resistenza” più che ai partigiani, è molto più applicabile ai fascisti e ai tedeschi che, tra innumerevoli difficoltà, “resistettero” all’avanzata dell’VIII Armata britannica e della V Armata americana, lungo la dorsale della penisola. Le formazioni partigiane, infatti, nonostante la costituzione, nel 1944, del CVL (Corpo Volontari della Libertà) – cioè di un comando unitario – difettarono sempre di un reale coordinamento e operarono con azioni di sabotaggio e attentati “alle spalle” del fronte vero e proprio, rappresentato dalle formazioni tedesche e fasciste impegnate nella guerra. Chi fu veramente l’invasore? Riguardo, poi, all’invasione tedesca dell’Italia – quale evento deflagrante del fenomeno resistenziale e base della vulgata storiografica tradizionale – essa è piuttosto da leggersi come frutto di una ricostruzione “mitologica” a posteriori, in parte derivante da un’errata sovrapposizione di quei fatti agli episodi del Risorgimento italiano – di cui la Resistenza si propose come “continuatrice” – e anche di un’impropria assimilazione del “tedesco” all’“austriaco”. È infatti noto che, il 9 luglio del 1943, quando gli Alleati sbarcarono in Sicilia – Operazione Husky – l’Italia era in guerra contro di loro, in quanto alleata della Germania, pertanto lo status di “invasore”, più correttamente, dovrebbe essere attribuito agli angloamericani, anziché ai tedeschi (A. Saccoman, La Campagna d’Italia, Brugherio 2007). Questi, ben prima dell’annuncio dell’armistizio – l’8 settembre 1943 – quando cominciarono a costituirsi le brigate partigiane e furono compiute le prime azioni di guerriglia contro i Germanici – avevano già truppe della Wehrmacht di stanza in territorio italiano, dove erano giunte su richiesta del governo italiano, per rafforzare la resistenza militare del Regno d’Italia, in vista di un probabile attacco alleato al “ventre molle” dell’Asse, secondo le decisioni prese nel corso della conferenza di Casablanca (gennaio 1943) e che, nel luglio del 1943, fu attuato con lo sbarco in Sicilia. All’indomani dell’8 settembre, quindi, i tedeschi – alleati del giorno prima! – non fecero altro che rafforzare una presenza militare in parte già effettiva, inviando ulteriori divisioni nel paese con l’obiettivo di attuare l’Operazione Alarico, cioè disarmare il Regio Esercito e consentire un rafforzamento militare del fronte meridionale dell’Europa di fronte agli Alleati, perché il governo italiano aveva ormai abbandonato l’alleato germanico, sperando di “tirarsi fuori” dalla guerra (A. Saccoman, La Campagna cit., 2007). La bufala del «secondo risorgimento» Oltre al mito dell’“invasore”, dunque, altri miti storiografici, da tempo sedimentati nella coscienza collettiva italiana, sono quello della “unità” dei combattenti antifascisti, della loro presunta “superiorità” etico-politica – rispetto ai fascisti – e della “rappresentatività nazionale” – quindi realmente patriottica – delle formazioni militari partigiane. Tutto ciò, dunque, giustificherebbe la celebrazione annuale del 25 aprile e costituirebbe il fondamento più autentico della Repubblica e dell’Italia, quale Nazione. Ma è, realmente, così? La celebrazione del 25 aprile quale evento fondatore della Nazione, dell’Italia, presta il fianco ad una palese falsificazione storica, perché l’Italia, piaccia o non, si costituì in Stato unitario, in corpo politico nazionale, né per merito dei comunisti, né degli azionisti, né dei fascisti, ma dei “liberali”, e non nel 1945, ma nel 1861! Il 17 marzo di quell’anno – data non più oggetto di celebrazioni ufficiali – l’Italia nacque o, meglio, “rinacque”, dopo secoli di divisioni interne e domini stranieri, e senz’altro non per merito dei partigiani. L’Italia, come Nazione, con tutti i suoi problemi e limiti oggettivi politici, sociali ed economici fu, dunque, il prodotto del Risorgimento, cui non è certo assimilabile la Resistenza che fu, oltre una guerra contro lo “straniero”, soprattutto una “guerra civile”, interna, tra “fratelli”, che causò la morte di centinaia di migliaia di connazionali, vittime di attentati ed omicidi premeditati (mai teorizzati, a quanto risulta, da Mazzini, Cavour o da Cattaneo). Occorre dunque ribadire con forza che, al di là delle azioni militari compiute dai partigiani contro l’esercito tedesco, la Resistenza fu, essenzialmente, una spietata “guerra civile”, in cui italiani uccisero, consapevolmente e volutamente, per scopi essenzialmente politici e non militari, altri connazionali (G. Pisanò, Storia della guerra civile in Italia 1943-1945, 3 voll., Milano 1965-1966, vol. I). Tutto ciò rende un po’ difficile, anche a livello concettuale, attribuire al 25 aprile il ruolo di fondamento granitico della Nazione. Partigiani divisi Bisogna, inoltre, rammentare che la “Resistenza” italiana non fu neanche un fenomeno unitario, né dal punto di vista ideologico, né militare, come certa vulgata storiografica o cinematografica ha, a lungo, sostenuto. Le brigate partigiane ebbero un unico elemento coagulante nella contrapposizione armata verso fascisti e tedeschi ma, per il resto, agirono, per lo più, in totale autonomia e anche con esiti catastrofici. Ogni gruppo combattente, detto brigata – escludendo le poche formazioni cosiddette “autonome”, che ebbero scarso peso nell’andamento complessivo del conflitto – aveva un proprio “referente” politico nella galassia dei partiti prefascisti, sciolti durante il regime, ma ricostituitisi all’indomani del 25 luglio del 1943. Questa intrinseca diversità delle componenti resistenziali – comunisti, socialisti, azionisti, democristiani, liberali, repubblicani, demo-laburisti, “autonomi” – più volte presente anche all’interno degli stessi partiti e raggruppamenti militari, viene più volte enfatizzata quasi fosse un elemento “positivo”, se non “costruttivo” e “arricchente” della Resistenza italiana, quando, in realtà, fu causa di aspri conflitti non solo “dialettici” – si rammenti l’eccidio di Porzûs (febbraio 1945) – durante e dopo la conclusione della “guerra civile”. Più imboscati che militanti Anche il grado di “consapevolezza ideologica” dei singoli partigiani è stato volutamente enfatizzato, al fine di dare alla lotta contro il tedesco e il fascista una chiara valenza politica, ma non è così (G. Pisanò, Storia della guerra civile cit., vol. I). Nonostante l’esistenza della figura del “commissario di brigata” – quale garante di un’“ortodossia” politica spesso inesistente – e la presenza, all’interno delle medesime formazioni combattenti, di vecchi militanti antifascisti, provenienti dall’esperienza del confino o del carcere, è difficile rintracciare una reale “consapevolezza ideologica” nella gran parte dei giovani cresciuti sotto una dittatura monopartitica e nelle sue organizzazioni giovanili. Pertanto, le reali motivazioni del “salire in montagna”, andrebbero ricercate nella necessità di sfuggire ai bandi di arruolamento della Rsi o, nei casi peggiori, nella necessità di sottrarsi alla giustizia militare o civile, o anche nel semplice desiderio di “avventura”. Non è un caso che le prime formazioni partigiane si costituirono all’indomani dell’armistizio, in seguito all’aggregazione di “sbandati” del Regio Esercito, che si era letteralmente dissolto al sole. In ogni caso le contrapposizioni ideologiche, già presenti allo stato endemico, durante la guerra, quantomeno tra l’élite dirigente della Resistenza, esplosero alla fine del confitto quando, nel 1947, si arrivò alla scissione tra socialisti del Psiup (Partito socialista d’unità proletaria) e socialdemocratici, che fondarono il Psli (Partito socialista dei lavoratori italiani) poi diventato, nel 1952, Psdi (Partito socialdemocratico italiano). Nel 1948, all’interno dell’Anpi (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia), costituita nel 1944, ed egemonizzata dai partigiani comunisti e socialisti, si arrivò alla scissione dei liberaldemocratici e cattolici – poi riunitisi nella Fivl (Federazione Italiana Volontari della Libertà) – mentre i partigiani repubblicani e socialdemocratici, a loro volta, costituirono la Fiap (Federazione Italiana Associazioni Partigiane). Sempre nel ’48, avvenne la scissione tra le varie componenti ideologiche sindacali – socialista, comunista, cattolica, liberal-repubblicana – confluite, nel 1944, nell’unitaria Confederazione Generale del Lavoro, e che diedero vita a Confederazioni sindacali proprie (Uil e Cisl) (G. Crainz, Storia della Repubblica. L’Italia dalla Liberazione ad oggi, Roma 2016). Questa frammentazione, a tratti litigiosa, all’interno del “fronte resistenziale”, suscita non poche perplessità e mette in dubbio il carattere realmente “nazionale”, cioè unitario, del fenomeno combattentistico partigiano. La mitologia del 25 aprile inventata a posteriori Inoltre, le diversità tra i raggruppamenti della Resistenza, al di là di impropri paragoni, non erano certamente assimilabili a quelle che pure contrapposero i patrioti del Risorgimento italiano, perché questi ultimi, al di là delle posizioni personali, furono sempre tenuti insieme dal collante ideologico offerto dal “liberalismo” ottocentesco. Infine, si tenga anche presente che la disomogeneità ideologica, interna alla Resistenza, ebbe modo di manifestarsi non solo sul piano strettamente politico, cioè delle idee, dei progetti secondo i quali il Paese avrebbe dovuto essere in futuro ricostruito – i comunisti, notoriamente, guardavano al modello bolscevico – ma, ed è cosa poco nota, addirittura sul piano del “folclore resistenziale”, che fa spesso capolino durante le cerimonie commemorative dei nostri giorni. Ad esempio, in ambito musicale, tra il 1943 e il 1945, nessun partigiano intonò mai la nota canzone Bella Ciao – oggi considerata l’inno ufficiale della Resistenza – trattandosi di una canzone delle mondine (attestata, la prima volta, nel 1906!) che solo alcuni anni dopo la fine della “guerra civile” – quando iniziava la stagione della manipolazione politica della verità storica e il suo uso propagandistico – fu opportunamente modificata e utilizzata per dare una parvenza d’unità, anche sotto il profilo musicale, ad un fenomeno storico frammentario e magmatico. In realtà, ogni brigata partigiana ebbe il proprio “inno”, le proprie “canzoni”, come le brigate Garibaldi – di orientamento comunista e costituenti circa il 60 per cento delle forze resistenziali – i cui uomini erano soliti intonare l’Internazionale o Fischia il vento (Ribelle e mai domata. Canti e racconti di antifascismo e resistenza, a cura di A. Portelli – A Parisella, Milano 2016). È quindi la disomogeneità interna della “Resistenza” italiana e – come si vedrà – l’esiguo numero dei suoi partecipanti, a gettare qualche dubbio sulla reale possibilità che tale evento possa assurgere a cemento unificante dell’Italia, a “collante” spirituale, politico ed etico di un intero popolo che, all’epoca dei fatti esaminati, assommava a circa 44 milioni di individui. (1-continua) Tommaso Indelli

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