Il Castellaccio di Lentini
Lentini. Il Castellaccio di Lentini un sito da riscoprire ---------------------
Il castello svevo con le sue mura possenti, la cui altezza veniva accentuata dai profondi fossati e dalle valli naturali, doveva apparire come un vero e proprio nido d’aquila e dominatore superbo. A Sud del moderno abitato di Lentini insistono i ruderi del cosiddetto Castellaccio, costruito su un promontorio che si innalza tra le valli del Crocifisso e di San Mauro, fiancheggiato a sud-est dal monte Lastrichello e a nord-ovest dal monte Tirone. Il Castellaccio è identificabile con la struttura federiciana menzionata nella Lettera del 1239, scritta dall’imperatore Federico II da Lodi a Riccardo da Lentini (Carcani, 1786). In essa viene indicato come Castrum Vetus, tramandataci poi come Il Castellaccio. L’imperatore Svevo, già amante delle terre vicine di Augusta e Siracusa, destinò questo sito strategicamente perfetto al controllo di tutto il territorio, mediante l’ edificazione di un castrum. Lentini, la greca Leontinoi, era stata già oggetto di interesse da parte dello Svevo, come ci riferisce lo storico Rocco Pirro.
Sappiamo che Federico, sconfortato dalla morte prematura del cognato Alfonso e dal propagarsi di un’ epidemia tra il seguito reale ritemprò il proprio spirito nelle terre lentinesi, sia al Biviere che nei boschi del Murgo. Nel 1223, dopo aver domato la rivolta musulmana di Sicilia, relegò una parte dei ribelli ai castra di Lentini e Siracusa (Pisani-Baudo 1908). Dieci anni dopo convocò a Lentini il Parlamento siciliano (in solemni colloquio apud Leontinum). Ricca di nomi lentinesi poi si rivela la corte federiciana a cominciare dal famoso Riccardo sino a Jacopo e a Giovanni. Riguardo la costruzione del castrum i documenti più importanti, come già accennato, sono le famose lettere lodigiane del 1239 inviate da Federico in particolare al praefectus novorum aedificiorum, Riccardo. Apprendiamo notizie sui lavori e sull’approvvigionamento al Castrum Vetus che ci permettono di porre i termini cronologici del cantiere tra il 1223 e il 1239.------------------- Dal testo si evince che Riccardo aveva fatto rinnovare le mura del castello inserendovi tre torri per potenziare la difesa e che i rifacimenti riguardano la parte muraria rivolta verso il “castello nuovo”, della cui esistenza veniamo automaticamente a conoscenza poiché nulla ci è pervenuto. Nello stesso tempo vengono riportati i due diversi termini: castrum per il “Castellaccio” e castellum per quello non più esistente. Le rovine del Vetus furono viste e descritte da storici e annalisti come il Fazello l’Arezzo e l’Amico, sin dal XVI secolo. L’archeologo Paolo Orsi riteneva che il Castellaccio, ”sorgeva “sulle rovine di altri più antichi: chè ampi tagli nelle pareti rocciose, e scarpate di massi alludono ad opere di età anteriore: qui fu il perno della difesa della piccola Leonzio medievale, più arretrato della linea greca”. Nello stesso testo l’archeologo roveretano ci informa che il 10 marzo del 1931, insieme all’inseparabile disegnatore R. Carta, al restauratore G. Damico e al prof. G. Agnello, ispezionò meticolosamente il sito: “così l’archeologo e il medioevalista sentivano il bisogno di comperarsi, controllando a vicenda le loro impressioni, i loro pareri”.
L’ Orsi ritenne che il Castellaccio fosse decisamente federiciano: “Non abbiamo osservato un solo masso che si possa dichiarare greco, ed anche le numerose sigle di cui tutta l’opera è costellata non sono affatto greche, ma rispondono allo scrupolo con quelle del castello Maniace di Siracusa […] E svevo per eccellenza è il grande ambiente sotterraneo con volta ogivale nel centro del colle. Si deve ritenere che gli ingegneri militari del gran Federico abbiano fatto un repulisti generale di quanto esisteva di più antico del colle, traendone abbondante materiale lapideo, di nuovo riquadrato ed adattato alla nuova opera”. ----------- Anche per i fossati, probabilmente preesistenti nelle linee generali, Orsi si esprime allo stesso modo e, in particolare per quello settentrionale, che ritenne totalmente ampliato e rinnovato da parte delle maestranze federiciane (P. Orsi in “Scavi di Leontini-Lentini”, Società Magna Grecia, 1931). Sullo stato di abbandono del sito così si esprimeva G. Agnello nel 1935: ”l’opera tenace di trasformazione agricola, secondata dall’incessante azione degli agenti atmosferici, tende a livellarne i ruderi che si disgregano e spariscono sotto ingenti masse di terra, mentre la vegetazione rigogliosa nel oscura la visione con la sua densa macchia verde… Forse tra un secolo, se un più pietoso culto per le glorie patrie non si appresti a salvare dallo sfacelo le ultime rovine, del glorioso castello sarà sparita ogni traccia”. Soltanto nel 1986 vennero pubblicati i risultati dei primi interventi di restauro e valorizzazione del Castellaccio di Lentini operati dalla Sovrintendenza ai Beni Culturali di Catania (A. Pavone “Primi interventi di restauro e valorizzazione del Castellaccio di Lentini” in Un trentennio di indagini nel territorio di Lentini antica), con la collaborazione di quella di Siracusa, che hanno però interessato soltanto l’ambiente sotterraneo.
Attualmente in proprietà del Comune di Lentini, è diventato perno del Parco archeologico del Castellaccio ed è fruibile solo su prenotazione. Il suo stato però non è ancora fra i migliori non essendo oggetto di cure e manutenzione. Il Castellaccio con le sue mura possenti, la cui altezza veniva accentuata dai profondi fossati e dalle valli naturali, doveva apparire come un vero e proprio nido d’aquila e “dominatore superbo”, per usare una definizione di G. Agnello. L’attuale accesso al Castrum Vetus avviene attraverso un viottolo che si lascia alla destra il fossato sud-est, oggi colmato dalla presenza di un agrumeto e conduce alla rocca dal lato sud. Il primo rudere che ci appare è quello che ha conservato il maggiore numero di conci ancora in piedi relativo ad una delle tre torri (tribus turribus) costruite nell’ambito della roccaforte come si legge nella gia’ citata lettera lodigiana. Lungo il lato sud si imposta una poderosa struttura in conci di grandi dimensioni (m.1,60 x cm.45-55 ) allettati con malta, della quale rimangono 15 metri in larghezza e 10 in altezza per un totale di una ventina di assise. Le misure dei conci diminuiscono nelle assise superiori creando un suggestivo effetto di continuità con la parete rocciosa artificialmente tagliata. Essa si configura a mo’ di prua di nave dominando il fossato sottostante. ------------------------- Nel 1500 il Fazello menziona l’esistenza di quest’opera definendola arx triangolare, cioè a forma di triangolo i cui vertici erano orientati secondo i tre capi della Sicilia. Anche l’Arezzo riferisce della sua forma con tre angoli. L’Amico, nel XVIII secolo, la descrive ridotta in rovine a causa dei terremoti. Appare evidente e per le fonti e per la strutturazione che essa sia una delle tre torri che facevano parte del castrum. All’interno dei resti della torre è ancora leggibile, nonostante i numerosi crolli, la presenza di un ambiente rettangolare con relativa porta che dava l’accesso ad un ambiente sotterraneo oggi interrato: sulla sua funzione solo indagini mirate potrebbero far luce. E’ oggi difficile dire in che modo la torre si collegasse con la cortina muraria del versante sud-orientale essendone scomparsa ogni traccia. A difesa del lato meridionale della roccaforte doveva esistere un muro che, piegando ad est, si collegava con la torre: un breve tratto è ancora miracolosamente in piedi in una posizione di “slittamento” verso il fondo valle. Gia’ definito il “muro dei marchi” da chi scrive (in “Siracusa Sveva, 2002, pag. 127), perché sui suoi conci ne sono leggibili ancora parecchi. Si tratta dei marchi delle maestranze altamente specializzate che venivano remunerate grazie a questo segno identificativo. G. Agnello ne misurava 10 metri lineari oggi non più tutti conservati. Con molta probabilità tale muro fa parte di quel rifacimento menzionato nella lettera lodigiana che guardava al Castellum Novum, rivolto proprio ad occidente.
Tratti di mura si possono ancora vedere sul lato occidentale che risulta particolarmente protetto dal fossato preesistente. La parete nord che domina la valle del Crocifisso è quella maggiormente danneggiata dalle frane, ma nell’angolo nord-ovest resiste un breve tratto di muro dell’altezza di m. 1,85. Esso conserva due feritoie rettangolari, forse anch’esse con la funzione di piombatoi. Il muro è praticamente scollato dal piano di roccia. Sul pianoro, tra le sterpaglie, si riesce a fatica ad individuare qualche concio. Parallelo al bordo occidentale che guarda al monte Tirone, alla distanza di m. 5, rimane la parte basamentale di un muraglione lacunoso del rivestimento, lungo m. 30 con uno spessore di m. 2,40 con un’interruzione nella parte mediana che potrebbe essere interpretata come l’apertura di un portale. Questa cortina si colloca nel probabile sito di una torre ottagona, una delle 3, a difesa della porta rivolta ad occidente. L’esistenza di questa torre è ricordata dall’Amico che ancora alla metà del Settecento ne descrive ingenti rovine con conci recanti i marchi dei lapicidi, ma era già scomparsa ai tempi del sopralluogo di G. Agnello. Della terza torre, ubicata forse a difesa del lato di nord-est, nulla al momento è visibile. La funzione strategica della torre ottagona è similmente organizzata come quella triangolare a sud-est. ---------------- Nel caso in cui il nemico fosse riuscito a superare i fossati e gli istmi relativi si sarebbe trovato di fronte a queste imponenti torri collegate con le cortine murarie, praticamente inespugnabili. Due cisterne al centro e una con cunicoli, prossima al lato nord, indicano che l’approvvigionamento idrico fu uno dei maggiori problemi qui risolti, i cui meccanismi rimangono ancora non studiati. Nella parte sudoccidentale, attraverso una porta e discendendo una scala composta di 22 gradini coperta con volta a botte a tutto sesto realizzata con conci di calcarenite di raffinata fattura, si accede attraverso un vestibolo servito da due porte, ad un ambiente sotterraneo. Tutto il sistema è stato oggetto dell’intervento di restauro operato dalla Sovrintendenza di Catania nel 1986. Il confronto più immediato è con la scala del cosiddetto Bagno della Regina nel castello di Siracusa.
La scala di Lentini porta ad una ambiente sotterraneo di forma rettangolare (m. 16,72 x 5,58) sicuramente scavato nella roccia le cui pareti furono rivestite da un paramento murario con conci di misura più o meno regolare poggianti su banchinamento. Nulla rimane del piano di calpestio medievale. Lungo la parete est si legge la data del 1579, sicuramente relativa ad un restauro della stanza ipogeica, sulla cui realizzazione in periodo federiciano non dovrebbero esservi dubbi dal momento che i conci presentano ancora numerosi marchi confrontabili non solo con quelli esistenti sul frammento del “muro dei marchi”, ma anche con quelli del Maniace. Oggi la lettura dei marchi è difficilissima a causa della corrosione dei blocchi. E’ noto come il Fazello, osservandoli, rimanesse affascinato e meravigliato dalla loro presenza fantasticando sulla loro funzione. La sala è scompartita in cinque settori dai quattro semipilastri a parete oggi alquanto frammentati, ma che ci permettono di leggere le imposte delle ghiere d’arco che decoravano la copertura con volta a botte a sesto acuto. Ogni scomparto della volta presenta due dispositivi di apertura verso l’esterno sulla cui interpretazione restano molti dubbi. Se si tratta di areatori si potrebbe interpretare l’ambiente sotterraneo come magazzino per le granaglie; se si tratta di caditoie la funzione del sotterraneo diventa strategica.
“L’esistenza del sotterraneo sarebbe inspiegabile se non fosse possibile porlo in collegamento con un sistema di vie segrete attraverso le quali si potesse raggiungere, in caso di necessità, l’esterno del castello” (A. Pavone). Numerose sono ancora le parti sotterranee da esplorare come ad es. i cunicoli di una cisterna e quelli che dalla cosiddetta Grotta delle palle lungo il lato meridionale del promontorio, secondo A. Pavone, potevano essere in comunicazione con la sala in esame. L’ultimo rudere da segnalare, prima che precipiti a valle, è relativo forse ad una cappella. Si tratterebbe della parte absidale, del diametro di m. 4, oggi sullo strapiombo. A prima vista la tecnica muraria farebbe pensare ad opera bizantina a meno che, come vuole qualche studioso, essa non rappresenti l’emplecton, cioè il rinzeppamento del muro svevo il cui fodero è andato perduto. -------------------------- L’esistenza di una struttura chiesastica al Castellaccio viene ricordata nel 1675 quando, per timore di una attacco dei francesi che avevano assediato Lentini, si mise in salvo un’antica tavola raffigurante la Madonna conservata da secoli nella fortezza, ancora oggi conosciuta con il nome di Madonna del Castello. La presenza inoltre di numerosi ambienti sia a pozzo che a volta (con botola in sommità) non studiati, ci pone ancora una volta di fronte al grosso problema conoscitivo di questo straordinario complesso monumentale la cui soluzione non può essere data da argumenta ex silentio. Il recupero occasionale e fortuito di una capitello svevo, è una prova tangibile dell’esistenza di altri materiali che potrebbero fornire elementi per un tentativo di ricostruzione degli ambienti e dell’apparato scultoreo che pur doveva esistere. Le poche tracce monumentali del Castellaccio di Lentini in una situazionenaturalistico ambientale di straordinaria suggestione, si pongono come uno stimolante puzzle medievale che solo attraverso una seria escientifica indagine conoscitiva potrà essere ricomposto.
Il Castellaccio di Lentini è raggiungibile facilmente percorrendo la cittadina di Lentini sino alla piazza Umberto per poi arrivare alla Chiesa di San Luca e da lì alla via Bricinna. (di Laura Cassataro, trovato in rete)
Il Castellaccio di Lentini merita rispetto, cura e amore. Il sito ha bisogno di essere messo in luce, perché, ha ancora tanto da offrire.
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